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"SIMBOLICHE METAMORFOSI"

27 gennaio 2024

esposizione artistica di
Alberto Laszlo

La pittura di Albert László viene da lontano. La sua lunga e intensa ricerca ancora sconosciuta in Italia dopo iniziali adesioni al realismo figurativo si è definitivamente abbandonata al dinamismo espressivo del colore. Questo forte ‘sentimento del colore’ – che permeava tutto l’arco creativo dell’artista transilvano – si andava sempre più liberando dalla costruzione del segno e da griglie compositive per diventare impulso ed esplosione, libertà e dinamismo.

Rispetto ad un’attualità che sovente rinunciava all’atto del dipingere a favore di altri mezzi, Albert László rimase fedele al proprio temperamento pittorico e ne fece la matrice del suo operare. Ma l’origine della sua pittura nasceva nel profondo, da un’adesione panica ed intima con il mondo naturale che affollava di tracce recondite l’universo dei suoi lavori: rugiade, muffe, sassi, alghe, meduse, fiori e minerali imprimevano sulla tela bagliori cromatici, filamenti sgranati, aggrovigliate striature, modulate campiture in cui si azzerava l’unitarietà dell’immagine.

Albert László non fotografava il mondo, non ne delineava i contorni, non ce ne raccontava la forma. Ciò che gli interessava era infatti mostrarcelo nella sua più intima essenza, attraverso il palpito che ogni contatto gli faceva scaturire. Questa sua visione che penetrava nel profondo della realtà – quasi a volerla sviscerare, come attraverso un’indagine microscopica tesa a portarla in superficie – ne dilatava la forma e i più minuti particolari fino a farne emergere quell’essenza intima e nascosta che l’artista affidava alla vibrazione accattivante e misteriosa dei suoi ricchi e modulati cromatismi.

 

E allora nulla più importava che si trattasse di perle o di bolle, di fondali marini o montagne di sale, rocce o foglie – come ci narrano i titoli delle sue opere, svelandoci il punto di partenza della sua indagine – perché le ‘architetture’ di Albert László altro non sono, in realtà, che ‘architetture’ del cuore.

L’identificazione dell’artista con il mondo naturale era infatti panica e spirituale, non scientifica e mentale. La scoperta dell’inorganico ma anche dell’organico – perché analogo era l’approccio che Albert aveva con gli esseri umani di cui rivelava le più remote fibre, gli innesti delle arterie e il pulsare segreto della vita – faceva sì che egli giungesse a delineare delle ‘geografie’ dell’anima, luoghi di senso profondo da cui gli “smottamenti” sociali e politici della contemporaneità fossero totalmente banditi, forse per sempre dimenticati.

Allora anche il pathos che ne scaturiva si stemperava in un luogo – l’opera – che diveniva spazio esistenziale, esperienza introspettiva e psicologica, indagine non oggettiva ma soggettiva della realtà, anche se la sensazione da cui nasceva ci fa istantaneamente pensare all’agire di uno scienziato con l’occhio fisso alla lente indagatrice di un microscopio. Ciò che veniva in tal modo scoperto e portato alla luce dall’artista viveva in una dimensione temporale che ha abbandonato nevrasteniche frenesie per lasciarsi andare a ritmi dolcemente lenti, a frequenze ancora una volta rapportabili non alla tecnologia imperante ma alla dimensione propria dell’uomo e della natura.

Una tale riflessione artistica che si nutriva non di famelici consumi ma di dilatate meditazioni, che traeva linfa da una visione del mondo in cui la realtà appariva tutt’altro che snaturata, imbrigliata, corrotta – e gli uomini

 

con lei e, forse, più ancora di lei – poneva l’accento su elementi di qualità e armonia che trovavano riscontro proprio in quella felice materia cromatica costitutiva dell’opera, talvolta ispessita quasi a voler sottolineare la fisicità, l’esserci delle cose, ma più spesso privata di ogni eccessiva grevità, affinché potesse essere libera di pulsare e dilatarsi sulla superficie pittorica.

Albert László era in sintonia con l’immaginario microscopico che permea tanti momenti espressivi contemporanei, dalla pittura all’architettura. Ciò di cui si serviva, però, era una sorta di ‘microscopio del cuore’ che guardava incantato la bellezza del mondo e ci ricorda tuttora che siamo parte di un flusso di vita in cui tutto scorre e tutto, lentamente, si ricrea.

Monica Miretti
critico d’arte